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Donna Padana

Note d'attacco

sopr+contr RE  MI RE (anche 1/2 tono sopra)  (3:20)

Presentazione

Il Maestro Giacomo Monica, con la sua attenta ricerca, raccoglie e rielabora questo patrimonio sonoro antico, fatto di dialetto, campane e memorie collettive. Le campane, infatti, non erano solo il segno del tempo nei campi, ma annunciavano gioie e dolori della comunità: matrimoni, feste, funerali. Anche il testo, vicino alla tradizione delle filastrocche dei nostri nonni, porta in sé una sottile ironia, con un dialogo che richiama le chiacchiere tra comari.

Nel brano, i rintocchi delle campane si intrecciano alla voce del canto, crescendo e poi morendo in una vibrazione lontana, come l’eco di un sogno. Così, quando giunge il vespro, resta solo il suono della memoria, che culla e accompagna la vita del borgo.

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Donna Padana si collega profondamente al tema del silenzio perché nasce proprio dal contrasto tra il suono e l’assenza di esso. Il rintocco delle campane, protagonista del brano, non è solo un richiamo sonoro, ma segna anche il passaggio al silenzio: il silenzio della sera, il silenzio della memoria, il silenzio della perdita.

Dopo ogni scampanio, dopo ogni parola sussurrata in dialetto, il silenzio prende il sopravvento, lasciando spazio alla riflessione e al ricordo. È un silenzio carico di emozione, che porta con sé la presenza invisibile di chi non c’è più, ma che riecheggia nel cuore di chi resta. È il silenzio delle comunità contadine quando la campana annuncia un evento importante, un silenzio rispettoso, denso di significato, quasi sacro.

Nel canto, la voce sembra emergere da questo silenzio e, allo stesso tempo, tornarvi, come un'eco lontana che si dissolve nel tempo.

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Un canto d’amore e di disperazione, una melodia struggente. Il testo è riconducibile ad una filastrocca che parte dal suono della campana, onnipresente nei nostri borghi, un suono che riempie l’aria della sera e ravviva il ricordo, mai sopito, di una donna straordinaria che non c’è più: la mamma, ma che racchiude una sottile ironia tipica della filastrocca (él marì 'l gh’à portà iela) che nella seconda parte sembra più un dialogo tra comari…

Frutto del lavoro di ricerca e di elaborazione del Maestro Giacomo Monica: 

 

Il testo è una filastrocca che parte dal suono della campana, onnipresente nei nostri borghi, che da lontano annuncia, con i suoi rintocchi, le ore della giornata, ma anche i momenti più importanti della nostra vita, come le feste o i funerali. Rintocchi che crescono, si alternano e si espandono lungo tutto il brano e lo chiudono tra un crescendo ed un diminuendo che và morendo nella vibrazione dell'ultimo battito. Al rintocco della sera, arriva il momento di chiudere gli occhi e di sognare...

 

Qui emerge l’attenzione del ricercatore (il Maestro Monica) verso tutto il “materiale sonoro” di quel mondo antico:

- le parole in dialetto, molto vicino al lodigiano, soprattutto quello della parte centro meridionale del territorio che non risente ancora delle influenze del piacentino ma già abbastanza diverso da quello del capoluogo;

- le campane, che segnavano il ritmo della vita dei campi (ave, mezzodì e vespro) ma che erano anche portatrici di lieti eventi (feste, matrimoni) così come di eventi meno lieti (funerali, incendi che spesso succedevano nelle cascine, alluvioni…).

- Il testo, riconducibile alle filastrocche dei nostri nonni (“Din don basilón, tre campane sul balcón”; “ Din dón danda pópi de Pivànda…”), qui latore di una brutta notizia, ma con quella sottile ironia tipica della filastrocca (el marì el gh’à portà iela) che nella seconda parte sembra più un dialogo tra comari (l’è morta lo so mama… la donna padana… la sposa alta e snela… l’Emanuela…) che emerge tra uno scampanio e l’altro.

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​Da sempre, nei nostri borghi, è il suono della campana che scandisce, vicino e lontano, con i suoi rintocchi, le ore della giornata, ma anche i momenti più importanti della nostra vita, come le feste o i funerali. “Le sei campane erano arrivate da Verona il 18 marzo del 1922 da quella stessa fonderia che le aveva fuse la prima volta nel 1820. Senza i batocchi pesavano complessivamente 97 quintali e ci vollero due grossi autocarri per portarle quassù. Il Matìo era la più grande, anzi il più grande, poi veniva la Maria, la Giovanna, il Toni, la Rita e il Modesto. Con il nome di questi santi erano state benedette e così erano chiamate ab antiquo, per nome, come persone della nostra Comunità. Secondo la tradizione venivano suonate così: il Matìo per il fuoco degli incendi, per allontanare i temporali, per chiamare a riunione il consiglio comunale; la Maria per l’Angelus; il Toni da solo per il transitus degli uomini; la Giovanna da sola per il transitus delle donne e le due, insieme, a botti, per i funerali; tutte e sei, a distesa, suonavano nelle feste grandi, per i matrimoni e per la festa dei coscritti…” E sarebbero state la Giovanna e il Toni ad accompagnare il passaggio di Emanuela, mamma e moglie di un nostro piccolo paese, come raccontato nel canto.

Din don campana l'é morta la sò mama,

din don campana l'era donna padana.

Din don dindéla sposa binda e snéla,

din don dindéla Emanuela.

Din don dindéla 'l marì 'l gh'à portà jéla,

Din don dindéla dorma Emanuela.

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Sento una campana nell'aria che segna la sera

col suo din don, col suo din don...

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